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Sale, Alessandria, Italy
Ex giornalista pubblicista; Organizzatore di festival letterari; Presentatore; Speaker radiofonico;

01 marzo 2020

ENRICO FOVANNA L'ARTE SCONOSCIUTA DEL VOLO



Premosello, Piemonte settentrionale, 1969. È il primo novembre, vigilia del giorno dei morti, e una scoperta agghiacciante sta per risvegliare l’orrore in paese, sconvolgendo l’infanzia di Tobia. Su una strada di campagna, vicino al ruscello, è stato rinvenuto il corpo di un suo compagno di scuola. A pochi mesi di distanza dal ritrovamento del cadavere di un’altra ragazzina. In paese si diffonde il terrore: ormai è evidente che per le campagne si aggira un mostro, un mostro che uccide i bambini. Tobia è afflitto dal senso di colpa e dalla vergogna, perché con quel ragazzo aveva fatto a botte proprio il giorno della sua scomparsa, desiderando davvero di liberarsi di lui. Adesso è difficile tornare alla vita di prima, all’amore innocente ed esaltante per Carolina, ai giochi spensierati con padre Camillo e con Lupo, il matto del paese. Soprattutto quando i sospetti dei paesani si concentrano su una persona molto vicina a Tobia, sulla cui innocenza lui non ha alcun dubbio. Quarant’anni dopo, Tobia vive a Milano e fa il medico legale. Demotivato dal lavoro e lasciato dalla moglie per l’impossibilità di avere un figlio, sta vivendo uno dei momenti più bui della sua vita. Sarà una telefonata di Ettore, il suo vecchio compagno di scuola, a convincerlo a tornare dopo tanti anni nei luoghi dell’infanzia, per il funerale di Lupo. E questo inatteso ritorno cambierà la rilettura del suo passato… Un romanzo intenso e toccante, in cui grazie all’amore un adulto sconfigge i fantasmi dell’infanzia.

29 febbraio 2020

JOSÈ SARAMAGO CECITÀ

«C'era un vecchio con una benda nera su un occhio, un ragazzino che sembrava strabico,

una giovane dagli occhiali scuri, altre due persone senza alcun segno visibile, ma nessun cieco, i ciechi non vanno dall'oculista»

In una città mai nominata, un automobilista fermo al semaforo si accorge di essere diventato improvvisamente cieco. La sua malattia, però, è peculiare: infatti egli vede tutto bianco. Tornato a casa con l'aiuto di un altro uomo (che ben presto si rivelerà un ladro) racconta l'accaduto a sua moglie. I due si recano da un medico specialista, dove trovano un "vecchio con una benda nera" su un occhio, un "ragazzino strabico", accompagnato da una donna e una "ragazza dagli occhiali scuri".

"Il medico", dopo aver esaminato l'uomo (che, nel seguito della storia, sarà chiamato "il primo cieco"), si accorge di non avere spiegazioni per quella improvvisa cecità. Ben presto, però, la cecità comincia a diffondersi. Il "ladro di automobili", "il medico", la "moglie del primo cieco", sono tutti colpiti dalla strana malattia. La "moglie del medico" sembra l'unica a non essere contagiata. L'epidemia si diffonde in tutta la città e il governo del paese decide, provvisoriamente, di rinchiudere i gruppi di ciechi in vari edifici, allo scopo di evitare il contagio. Ogni giorno le guardie avrebbero fornito il cibo agli internati.

«Fra i ciechi c'era una donna che dava l'impressione di trovarsi contemporaneamente dappertutto, aiutando a caricare, comportandosi come se guidasse gli uomini, cosa evidentemente impossibile per una cieca, e più di una volta, o per caso o di proposito, si girò verso l'ala dei contagiati»

Il medico, la moglie del medico, l'unica dotata della vista e fintasi non vedente per non separarsi dal marito, vengono internati in un ex manicomio dove incontrano il primo cieco e sua moglie, la ragazza dagli occhiali scuri, il ladro di automobili, il vecchio con una benda nera e il ragazzino strabico, tutti colpiti dalla malattia contratta nello studio oculistico. Inizialmente la distribuzione degli alimenti avviene regolarmente, ma ben presto i ciechi si ritrovano abbandonati, perché la cecità si diffonde anche tra i soldati e i politici, fino a colpire tutto il paese (tranne la moglie del medico). All'interno del manicomio, inoltre, un gruppo di ciechi (i "ciechi malvagi") s'impossessa di tutte le razioni di cibo provenienti dall'esterno per poter ricattare gli altri malati e ottenere potere e altri vantaggi, compresi rapporti sessuali con le donne. Proprio durante uno di questi stupri collettivi, la moglie del medico uccide il capo dei ciechi malvagi. Nel tentativo di rendere inoffensivi questi ultimi, un'altra donna dà fuoco ad un mucchio di coperte nella loro camerata, ma il fuoco si diffonde e finisce per avvolgere tutto l'edificio. Molti ciechi muoiono, ma una parte di loro (tra questi, il gruppo della moglie del medico), riesce a uscire all'aria aperta.

All'esterno dell'ex manicomio la moglie del medico vedrà i risultati dell'epidemia. Morti per le strade, la città in totale abbandono, gruppi di ciechi che occupano le case altrui e lottano l'uno contro l'altro per assicurarsi del cibo. Il gruppo della moglie del medico cerca di organizzarsi e di riacquistare la dignità che nella reclusione gli era stata sottratta; tra i membri si instaura amicizia e collaborazione e a loro si unisce un cane randagio, "il cane delle lacrime", attirato dal pianto della donna. Nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio come all'inizio della vicenda era sopraggiunta l'epidemia.


NICOLETTA VALLORANI AVRAI I MIEI OCCHI

È inverno a Milano, la più fredda delle stagioni, nella più desolata delle città. Ma non c'è mai una stagione giusta per indagare su un mucchio di cadaveri di donne abbandonato come spazzatura alla periferia dei campi industriali. Donne? Persone? O piuttosto cavie, cloni, cose? È quello che si chiede Nigredo, chiamato a investigare, a cercare una verità, e quindi ad attraversare i muri che dividono, separano, proteggono Milano dal deserto civile in cui la città è immersa. Ma quando c'è un muro, c'è sempre qualcuno capace di valicarlo, e Olivia a bordo del suo taxi lo sa bene. Lei conosce Nigredo da tempo. Il loro legame è molto più profondo di quanto lui si immagini. Olivia e Nigredo, anime gemelle, sopravvissuti a tempi migliori, a tempi diversi, non sono pronti ad arrendersi all'età e alla devastazione che li circonda. Vivono quasi sospesi ancora in cerca di attimi di bellezza, e di un'idea di giustizia diversa da quella immaginata dal potere.

27 febbraio 2020

CRISTINA RAVA I SEGRETI DEL PROFESSORE

Regna la pace al confine tra il basso Piemonte e la Liguria di Ponente, tra un cielo pallido di fine inverno e il tenero verde delle colline. Ma è solo apparenza. Ci può scommettere l’ex commissario Bartolomeo Rebaudengo. A richiamarlo all’azione dal suo ritiro a vita privata provvede Ardelia Spinola, il medico legale che non ha mai imparato a mettere la giusta distanza tra sé e i cadaveri distesi sul tavolo autoptico. Adesso il poliziotto deve vedersela con una scia di sangue che parte da Alassio e si perde in Alta Langa, con una serie di delitti dietro cui sembra celarsi la mano di un serial killer. Tre fori di proiettile, a formare un triangolo scaleno sul petto delle vittime, sono la firma dell’assassino. Mentre la nuova amicizia tra Bartolomeo e Ardelia nasconde a fatica le tracce dell’antica passione, il segugio piemontese comincia la caccia. Stavolta, però, battere la pista giusta è davvero difficile: una giovane scrittrice, un anziano prete e un enigmatico professore custodiscono segreti inconfessabili. E le menzogne confondono la verità come la nebbia appanna il profilo dei crinali. Nelle pieghe di un’affilatissima commedia nera, Cristina Rava si conferma una voce unica nel sondare i tempestosi rovesci dell’amore proibito, negato, tradito, che tutto travolge e sconvolge.

23 febbraio 2020

GIOVANNI TESTORI PONTE DELLA GHISOLFA

Il ponte della Ghisolfa è una raccolta di diciannove racconti pubblicata da Testori nel 1958; essa fa parte di un disegno più ampio, una sorta di “commedia umana” dal titolo I segreti di Milano, “dove tutto – nomi e situazioni, personaggi e ambienti – si tiene, si intreccia e si conferma”. Nel Ponte della Ghisolfa è rappresentato “il mondo della periferia milanese, popolato di poveri diavoli che tirano la carretta in fabbrica o a bottega ma anche di sfaccendati pronti a tutto, di prostitute e ragazzi di vita, di ladri e macrò con licenza di ricattare se non proprio di uccidere, di aspiranti campioni sportivi e di torbidi nouveaux riches”. I personaggi del Ponte della Ghisolfa sono tutti giovanissimi, operai, baristi, che, in una Milano alle soglie del Boom economico, lottano per sopravvivere, abitano nella periferia dai grandi casoni grigi (Roserio, la Ghisolfa, Porta Ticinese), si incontrano nei bar, frequentano le palestre coltivando la speranza di diventare campioni di ciclismo o di pugilato, passano le domeniche nei “cine” o nelle sale da ballo, si innamorano. Lo straordinario racconto di una Milano ormai scomparsa, il libro da cui Luchino Visconti trasse diretta ispirazione per il film Rocco e i suoi fratelli.

22 febbraio 2020

MARCELLO BARLOCCO UN NEGRO VOLEVA IOLE

Alcuni fra i racconti selezionati in questo volume (si prendano ad esempio Un negro voleva Iole, La caccia all’urogallo, La gatta) sono tra le vette della letteratura italiana del ’900. È dunque una pubblicazione che andrebbe salutata come un vero e proprio evento nella nostra produzione di libri.
Marcello Barlocco, come scrittore ebbe qualche tenue riconoscimento in vita. I suoi Racconti del Babbuino, pubblicati nel 1950 dalle Edizioni Pagine Nuove di Roma, ebbero una menzione al Premio Viareggio di quell’anno; nel 1952, per le Edizioni Ala di Genova, pubblicò il romanzo Veronica, i gaspi e Monsignore mentre negli anni ’60 alcuni suoi «atti unici» – il cui testo è andato perduto – vennero messi in scena a Genova da Carmelo Bene.
Ma in generale – in un’Italia in cui dominava il canone realista, e in seguito un’avanguardia che inseguiva piste completamente diverse – non ci fu spazio per una voce come quella di quest’autore non inscrivibile in alcuna corrente né italiana ma nemmeno internazionale. Il grottesco, l’allucinato, la metamorfosi incontrollabile degli esseri e delle situazioni, contiene echi che potrebbero evocare un Allan Poe, oppure l’espressionismo tedesco, a volte lo stesso Kafka o anche il romanzo dadaista, sempre tuttavia in un richiamo approssimativo.
A ciò si aggiunge un percorso biografico che certo non fu di aiuto. Nato a Genova nel 1910 da una famiglia di farmacisti, Barlocco, dopo una parentesi adolescenziale di fuga come mozzo nelle navi (forse su imposizione della famiglia), provò a continuare la tradizione familiare laureandosi in chimica e farmacia, ma presto cedette al richiamo di una precaria esistenza di artista/scrittore randagio fra Genova, Roma, Milano, e alla fine venne assorbito dagli ambienti della malavita genovese e fu accusato di usare la sua scienza per raffinare la droga. Nel 1958 finì in carcere e poco dopo anche in manicomio criminale, che egli a sua volta denunciò di abusi efferatissimi nei suoi confronti (sosteneva lo si sottoponesse a esperimenti di mineralizzazione del corpo). Morì nel 1972 con all’attivo, oltre al libro di racconti e al romanzo menzionati, tutta una serie di novelle e articoli scritti per i giornali – fra cui, ecumenicamente,  «Il Popolo» e «L’Unità» – ma di cui ormai restano poche tracce.

21 febbraio 2020

ANNARITA BRIGANTI ALDA MERINI L'EROINA DEL CAOS

Una poeta, non una poetessa. Rock, ribelle, sopra le righe, contro ogni forma di convenzione e d'ipocrisia. Due matrimoni, quattro figlie, e una guerra mondiale, ricoveri in manicomio, telefonate notturne, amori celebri e indimenticabili furori, cicche di sigaretta, scrittura, solitudini. Alda Merini è impossibile da contenere entro i bordi di una pagina perché i suoi versi e la sua storia esondano, invadono la vita. Questa è una sua storia, narrata per le strade di Milano, tra le pareti della sua casa, nelle pieghe di decenni in cui le donne cambiavano, e con loro l'Italia. Grazie ad affascinanti ricostruzioni dell'epoca e a molte preziose interviste - agli amici, ai colleghi artisti, al fedele fotografo, alla figlia Barbara e a tanti altri - le voci di chi c'era si uniscono a quella dell'autrice per raccontare gli aneddoti, i pensieri, i retroscena, in presa diretta. Annarita Briganti ci offre su Alda Merini uno sguardo originale, ricco di sfumature e di dettagli. E ne illumina la vita con un taglio sghembo e partecipe, come il sole che tramonta sui Navigli cari all'artista, facendo brillare l'acqua e regalando ai nostri giorni ordinari una nuova magia.

18 febbraio 2020

COLLETTIVO LA COMUNE TRENI SBAGLIATI

Vige, a proposito dei conflitti degli anni Sessanta e Settanta, un dispositivo che implacabilmente vieta la parola a chi a quei conflitti ha partecipato non pentendosene, ossia senza barattare con ruoli istituzionali – nei giornali, nei partiti, nei sindacati, ad esempio – la propria abiura.

Abiura totale e radicale al punto da assumere la forma parodistica della conversione. Chi, invece, si è rifiutato di sottoporsi a questo procedimento inquisitorio, chi, cioè, si è sottratto all’ossessiva e sempre ribadita presa di distanza, non solo dagli eventi, ma dall’idea stessa della possibilità della radicale trasformazione dell’esistente è stato da destra e da sinistra indifferentemente trattato come il nemico, sul quale lo stato può impunemente esercitare la sua violenza e la sua vendetta.

Vendetta infinita, se è vero che i “rifugiati” italiani continuano a costituire un’emergenza sanabile solo seppellendoli, dopo trent’anni, in carcere, come ripetutamente pretendono vittime, giornalisti, politici e magistrati. La traccia, se pur labile, di una nuova lotta diventa l’occasione per evocare e rinnovare la “paura degli anni Settanta” e degli “anni di piombo” o, comunque, essa appare come un’intollerabile violazione delle regole della democrazia, divenuta ormai la forma politica più adeguata a rappresentare gli orrori dei nostri tempi.
Qualunque manifestazione, pertanto, che fuoriesca dalle regole saldamente stabilite, viene accolta come una “minaccia terroristica” che giustifica la guerra, dove quest’ultima – condotta dagli stati indifferentemente, ormai,all’interno contro i propri “cittadini” all’esterno – diventa forma di governo delle contraddizioni sociali. L’intollerante ideologia punitiva odierna, rabbiosamente veicolata dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, si struttura fondamentalmente attorno a quattro assi portanti, i quali a loro volta si giustificano e si rinviano l’un l’altro precludendone ogni gerarchizzazione.

Primo: il tramonto dei concetti di rieducazione e riabilitazione della pena, qualunque sia il contesto del reato ed il tempo trascorso dal momento in cui è stato commesso.

Secondo: la tolleranza zero, cioè il ruolo centrale dell’incarcerazione ai fini del controllo sociale.

Terzo: il culto della vittima che designa ogni difesa dell’accusato come insopportabile affronto alla purezza e sofferenza della vittima, e propugna l’inasprimento ed il nonobli della punizione come necessaria e dovuta terapia al dolore della vittima stessa.

Quarto: il populismo giustizialista, più o meno indotto mediaticamente, assurto a fattore determinante delle politiche penali. Un’ideologia che, per quanto concerne i fenomeni di ribellione sociale, vede nei dispositivi penali e nei magistrati che li agiscono gli strumenti privilegiati, quando non unici, di regolazione attraverso la repressione pura e dura dei conflitti.Insomma, norme penali e magistrati non più strumenti neutri, terzi, fosse pure ipocritamente, di “risarcimento sociale”, ma scoperti mezzi e agenti di lotta, di parte. È sullo sfondo di questa vera e propria teologia della pena, del castigo infinito, che nell’agosto 2002, dopo vent’anni di esilio ufficialmente garantito e nei fatti consolidato, l’asilo dei “rifugiati italiani in Francia” viene bruscamente intaccato e rimesso in discussione. Pretesto formale è la fermezza richiesta dall’attualità della minacci “terrorista”, mezzo è la sepoltura della “dottrina Mitterrand”. Ipocrisie entrambe, dato che i fuoriusciti non sono certo più gente in armi attiva, e che la decisione politica mitterrandiana di non estradare riguarda un conflitto finito ed in sé non riproducibile di una ben determinata epoca passata. Si tratta invece di un’operazione di giustizialismo anacronistico applicato a scopi interni dai due Paesi interessati per ostentare quell’efficace collaborazione repressiva europea cristallizzata nell’illiberale e massimalista, e perciò giustizialista, “mandato di cattura europeo” (MCE), dal 2004 perno dello “spazio giudiziario europeo”, pur se non formalmente applicabile ai militanti attivi negli anni ’70/’80 perché la Francia ne ha arrestato la retroattività al 1993.

In proposito va osservato che è la medesima essenza giustizialista, e cioè l’appello a una giustizia rapida severa e sommaria nei confronti di chi si è reso colpevole di particolari reati, specie quelli di natura politica, che è agitata contro chi si macchia oggi di atti di contestazione radicale. Per cui, in fondo, la battaglia contro l’estradizione di un pugno di “vecchi compagni” e per l’amnistia dell’intera generazione sovversiva cui appartengono non è così anodina o marginale come può sembrare di primo acchito.

Norme procedure e mezzi di prova sulla cui base sono stati condannati i militanti di allora valgono pure per quelli di oggi. Infatti, l’emergenza italiana si caratterizza per la sua permanenza, visto che tutte le disposizioni repressive create in suo nome, ieri come oggi applicate da giurisdizioni normali, non comportano scadenze legate alla durata del pericolo che le ha originate, ma si sono stabilmente incrostate nei codici e fanno oramai parte solidale e irreversibile dell’ordinamento penale italiano.

Tutti questi dispositivi materialmente perenni tendono a rendere il detenuto politico il simbolo: del nemico sconfitto, della necessità della fermezza dello Stato, della rimozione degli eventi di cui è espressione. Nell’intento, malauguratamente più che avanzato, di tradurre le lotte sociali, quantomeno quelle dure, in termini criminali, di appiattire la “verità storica” sulla “verità giudiziaria”.

È in nome di questa democrazia nominalista che l’opzione giustizialista colpisce retroattivamente i “rifugiati italiani in Francia” sostenendo che non di guerra civile a bassa intensità si trattava allora, ma di unilaterale dichiarazione di guerra da parte di spietate associazioni a delinquere; dichiarandone comunque l’illegittimità perché l’Italia non era né la Grecia dei colonnelli né il Cile di Pinochet; e aggiungendo che la legislazione variamente premiale sui pentiti e la dissociazione escludono la necessità dell’amnistia.

Ed è per i medesimi motivi che le istituzioni europee hanno varato una serie di misure di cui il MCE costituisce il fulcro e la sintesi. In sostanza si tratta di provvedimenti (decisioni-quadro che presiedono all’armonizzazione delle legislazioni penali nazionali) che, da un lato, danno una definizione del “terrorismo” talmente aperta e articolata da coprire in pratica ogni tipo di reato, politico o no, commesso nello spazio europeo, e, dall’altro, semplificano ed accelerano, in sostanza automatizzano senza possibilità di ostacoli da parte del Paese richiesto, ogni eventuale procedura di estradizione fragli Stati membri dell’UE. Due le idee base: primo, la nozione di reato politico non ha più posto nell’UE; secondo, e senza passare per una previa un’armonizzazione dei sistemi penali nazionali, il mutuo e aprioristico riconoscimento delle decisioni giudiziarie dei Paesi membri dell’UE. Con la conseguenza apparentemente paradossale che, mentre si parla di declino dello Stato, ciascuno Stato membro estende senza intralci la sua mano giudiziaria su tutto il territorio dell’UE.

Le implicazioni che ne derivano sono più che inquietanti dato che, se scompaiono e il nemico politico e il reato politico, non possono più darsi né asilo né amnistia per un cittadino europeo.Un futuro non certo attrattivo né, si spera, supinamente accettabile.

L’episodio dell’oggi e il ricordo di ieri, pertanto, costituiscono una perfetta combinazione perché l’emergenza possa riproporsi all’infinito, perché possa mostrarsi il territorio della riserva che spetta a chi volesse rompere questa combinazione: il penale. Il risentimento e la vendetta alimentano una “cattiva memoria” deterrente di un “buon presente”, al punto che l’amnistia, l’abolizione dell’ergastolo e del 41bis non sono ascrivibili neppure alla possibilità del discutere, o che una richiesta di grazia o libertà di un detenuto dopo 35 anni di carcere, ancorché il suo nome sia Vallanzasca, scatena il pericolo per l’oggi, la sensazione dell’impunità, sensazione che, a questo punto evidentemente, può scomparire solo con la morte del reo.

In questo modo i fautori della moratoria contro la pena di morte, assicurano la pena fino alla morte.

Questo libro, allora, lungi dal rappresentare una resa alla memoria o il risarcimento malinconicamente offerto da una minoranza esigua a chi è costretto a vivere esiliato, si propone di ripercorrere a ritroso gli eventi, per rinvenire nel passato una indicazione del presente: la trascrizione giudiziaria di ogni conflitto, relegarlo nell’ambito del penale, è la modalità di governare le relazioni sociali, e in questo senso oggi non è diverso da ieri.

L’Italia degli anni Settanta è stato il luogo dove ha iniziato a essere sperimentata la possibilità che, come aveva ben visto Marx, lo stato d’eccezione diventi la regola, che, cioè, l’emergenza costituisca la normalità entro cui sono costrette le nostre vite.

Il penale, che dell’emergenza rappresenta un aspetto rilevante, appare non più e non solo forma di controllo e di repressione ma modalità che struttura la società, “cultura” della vendetta che ridefinisce il legame sociale attorno al desiderio della punizione ad ogni costo.

In quegli anni, allora, quando il conflitto ha posto effettivamente in questione il dominio feroce e disumano del capitale e dello stato, hanno preso corpo quelle misure emergenziali che, oggi, costituiscono gli strumenti a cui normalmente e largamente ricorrono gli stati per combattere il nemico di volta in volta prescelto.

I rom di Bologna, i lavavetri di Firenze, i giovani dispersi nei locali e nelle piazze di città e metropoli, i centri sociali, i precari, gli immigrati, i poveri non sono soggetti di relazioni sociali, produttive, umane, ma questioni di ordine pubblico, per loro si addicono ordinanze sindacali, decreti e sanzioni, persino l’espressione amorosa deve manifestarsi riproducendo gli stereotipi della “democrazia” spettacolare di volta in volta in voga, apponendo i lucchetti a ponte Milvio, perché, altrimenti espressa, scritta sui muri, costa tre mesi di carcere.

Rimovendo i caratteri sociali e politici dei conflitti dentro una società si mostra solo con tutta evidenza il motto gretto e imperante: “i trasgressori saranno puniti…” E allora i trasgressori di ieri e di oggi ci sono apparsi legati da un sottile filo, i treni, presi da tanti rifugiati anni fa, una metafora calzante.

Treni da sorvegliare perennemente perché portano con essi il virus della ribellione, non ha importanza se il virus, regredisce, muta, cambia natura, come nel film Cassandra Crossing, quei treni vanno accompagnati al precipizio.

Questo libro è la traduzione e l’arricchimento di un libro già pubblicato in Francia qualche anno fa. Oggi lo presentiamo articolato in sezioni. Nella prima sono presenti articoli che affrontano la soluzione politica in Italia, l’asilo politico in Francia, nonché lo spazio della legislazione in Europa; rivisitano le strade degli anni Settanta e rintracciano logiche, trasformazioni e comportamenti che impediscono di discutere di essi. Pur non condividendo in alcuni casi analisi e giudizi ci sembrano comunque che essi costituiscano un forte contributo alla rottura del silenzio e alla mera trascrizione giudiziaria di quegli anni…

Nella seconda sezione, specificamente sui rifugiati, sono raccontate le storie di Marina, Cesare, Paolo; il ricordo di Antonio, Alessandra e Sergio è segnato dal tempo infinito del risentimento superiore al loro tempo di vita. Alcuni articoli non sono volutamente firmati e non sono i rifugiati a parlare, ma altri parlano di loro. Come in un gioco di specchi i volti di ognuno appaiono confusi e indistinti ma con la responsabilità di rivendicare libertà per tutti e per ciascuno, e consapevoli che la nitidezza può essere data solo se movimenti sociali si fanno carico del conflitto di ieri e di oggi.

Nella terza sezione presentiamo contributi sulla questione dell’ergastolo, tematica che certamente necessita di più spazio e più attenzione di quanto riusciamo a darne in questo libro, ma abbiamo voluto fosse presente, perchè dentro il sistema del penale o meglio dentro la società penalizzata, l’ergastolo si erge a simbolo e parametro di “giustizia”.

Il libro vuole essere uno strumento di lavoro per riprendere dibattito e relazioni, per produrre e sostenere comportamenti conflittuali e antagonisti oggi, sapendo che solo la riappropriazione del presente fa riaffiorare una buona memoria.

PRIMO MORONI GEOGRAFIE DELLA RIVOLTA

Antropologo della città, ballerino, intellettuale rivoluzionario e punto di riferimento per diverse generazioni di militanti, fondatore della libreria Calusca di Milano, Primo Moroni ha saputo unire diversità e percorsi singolari senza mai dimenticare l’obiettivo di un mondo che fosse per tutti migliore, costantemente impegnato in un’attività intesa a “socializzare saperi senza fondare poteri”.

Autore insieme a Nanni Balestrini del testo fondamentale sui movimenti degli anni ’70 “L’Orda d’Oro” alla sua figura è legata la memoria della stagione dei conflitti sociali del lungo Sessantotto italiano, non meno che i germi dell’immaginario politico dei movimenti del nostro presente.

Lo scorso anno contavamo vent’anni dalla sua morte e DINAMOpress, come le Cattive Maestre, Qui e Ora, il Manfesto…, ha dedicato uno speciale al suo pensiero, in collaborazione con l’Archivio Primo Moroni, la libreria Calusca e il Csoa Cox18 che hanno messo a disposizione i suoi scritti conservati nel centro sociale dalla sua scomparsa nel 1998.

Quello speciale è diventato un libro che vi presentiamo insieme ai compagni di Dinamopress per provare a tracciare una linea rossa tra il pensiero di Primo e le tensioni dell’oggi

COX 18 MILANO NOIR E GIALD

Milano Noir e Giald
Luci e ombre di una città in 36 variazioni
Dai bassifondi della città, una nuova generazione di artisti e autori prende parola su una Milano allo sbando. Il libro lo trovi in Calusca, in via Conchetta 18, oppure lo puoi ordinare alla AgenziaX. Per presentare il libro, scrivici a questo indirizzo: cox18[at]inventati.org

Il nero e il giallo. Il giald in dialetto milanese, il noir come genere letterario capace di raccontare il presente e di coinvolgere un pubblico sempre più numeroso. Il registro del noir appare particolarmente adatto anche per gettare uno sguardo critico e dissidente su una realtà come quella milanese in cui esclusione, cleptocrazia, speculazione e uso politico della paura hanno ucciso l’anima della città e trasformato in mostri le sue figure popolari, dal “Me ciami Brambilla e fu l’uperari” al “Me ciami zanza e fu l’assessur”. In Milano noir e giald, e nel dvd allegato, si susseguono opere create perlopiù da giovani, raccolte attraverso una serie di iniziative organizzate dal centro sociale Cox 18, luogo storico dell’underground milanese. Testi, racconti orali, fotografie, disegni, fumetti, canzoni e immagini in movimento all’insegna dei due colori. Il nero di una città malsana e spietata che si può e si deve cambiare, il giallo perché questa inevitabile mutazione sarà piena di suspense, colpi di scena e criminali da scovare.

Aldo Amicucci, Gianluca Angioi, Giuseppe Apolito, Riccardo Avesani, Chiara Balsamo, Bettina Bartalesi, Marika Battarola, Paolo Binni, Federico Bovo, BSimo, Nelson Corallo, Pietro Dossena, Andrea Ferrari, Francesco Gallone, Gert l’infame, GGTarantola, Giubbonsky, Antonella Grieco, Andrea Guerra, Jerrinez, Lady Snowhite, Lucciole, Fanny Molteni, Alessandro Nebbia, Vincenzo Pandolfi, Paolo Pasi, Pear, Giovanni Pirelli, Serena Porrati, Titta Raccagni, Ratzo, Federico Rizzo, Paolo Robaudi, Vito Manolo Roma, Rosanera, Federico Tinelli, Lenin Andrejievic Ulianov, Paola Varalli.

Milano Nera
Nera come la magia nera del capitale fittizio (finanza, rendita immobiliare e saccheggio sans phrase) che domina la sua economia al punto di averne fatto la propria nave ammiraglia.
Nera come i buchi neri lasciati nel tessuto sociale urbano dalla distruzione dei quartieri storici e dalla deindustrializzazione seguita alla guerra sporca combattuta (e vinta) contro gli operai e la loro durezza.
Nera come la pelle nera (olivastra, gialla o comunque coloured) delle sue nuove plebi, quel “popolo degli abissi” che, per poterne spremere il sudore fino all’ultima goccia, viene clandestinizzato, controllato dai militari nelle strade e sottoposto al ricatto dell’espulsione.
Nera come l’anima di chi ci comanda (mafia e ‘ndrangheta ormai la fan da padroni in quella che un tempo amava autorappresentarsi come la “capitale morale” d’Italia; del resto, già allora, questa pretesa moralità altro non era che una gran banfata).
Nera come i fazulet (foera di ball!) del Ventennio e i craponi pelati d’oggigiorno.
Nera come il catrame misto tondinovetrocemento metastatizzatosi fino a diventare una metropoli senza confini, blob che ingloba e soffoca il suo intorno, mostruosa abolizione coatta e monocorde (invece che creativo e dialettico superamento) delle tradizionali differenze tra città e campagna.
Nera come la cronaca che spettacolarizza canagliescamente, senza saperla né raccontare né comprendere, la ciclotimia euforico-depressiva di questa metropoli senza confini, i cortocircuiti delle passioni tristi, le fobie aggressive, la psicopatologia del non-vissuto quotidiano, la violenza repressa.
Nera come lo sprofondo esistenziale che coglie il precario, l’“uomo flessibile” just-in-time, uso a lavorar servendo, al termine delle sue spericolate ancorché improbabili acrobazie surfistiche per non cadere nel gorgo della povertà conclamata e del disconoscimento.
Nera come l’abito-divisa delle torve torme di addetti alla security che vegliano gli accessi ai suoi sberluccicanti Antri del Vuoto.
Nera come la voragine della galera che ti uccide per pochi grammi di droga.
Nera come il sangue di Abba rappreso sull’asfalto.
Nera perché rosa dalla necrosi.

Postfazione (a cura di Cox18)
Il progetto del concorso creativo “Milano noir e giald nasce dalla passione di alcune persone del collettivo del centro sociale Cox18 per il genere noir. Inizialmente si trattava solo di condividere opinioni e scambiarci i libri di Izzo, Scerbanenco e di molti altri autori. Erano incontri vivaci e stimolanti in cui oltre a dare uno sguardo sul passato della nostra città, erano anche occasione per ragionare sul nostro presente e su quello che ci circonda.
Da qui l’idea di organizzare delle serate appositamente dedicate a questo genere letterario, cercando di coinvolgere anche i frequentatori del centro e nel frattempo raccogliere con loro testi e opere che potessero darci una visione nuova, più complessiva e popolare, della Milano nera. Abbiamo così deciso di indire un concorso legato al noir per incontrare, ascoltare e dare spazio alle voci della città in cui viviamo.
Il noir è stato quindi identificato come un registro espressivo ancora capace di descrivere la società e le sue trasformazioni, ma la scelta è stata quella di non costringerlo entro il limite del solo genere letterario, piuttosto abbiamo voluto che il tema si aprisse ad altri mezzi espressivi e a differenti linguaggi, fatti non solo di parole ma anche di immagini. Ci siamo appoggiati al blog di Cox 18 e alla sua mailing list, proponendo un testo che offriva una traccia o anche un semplice stimolo per tutti coloro che erano intenzionati a partecipare: “Le dodici variazioni del nero”, che trovate all’inizio di questa postfazione.
La risposta è stata notevole e sorprendente, sia per i numerosi lavori ricevuti sia per la variegata proposta di linguaggi in cui spaziano le stesse opere, dal racconto alla poesia, dal video al quadro, dal brano musicale al radiodramma, dal fumetto a elaborazioni visive molto ibride.
È stato interessante vedere come ogni autore ha interpretato le dodici variazioni del nero: chi ha optato per un’articolazione più prettamente noir, con i classici stilemi del genere, chi invece ha preferito impegnarsi su opere che prendono ispirazione da fatti di cronaca e ha deciso di affrontare temi legati al sociale, dove il nero è rappresentato dai vinti e dagli esclusi di una Milano tragicamente normalizzata e conformista.
Forte è stata la capacità degli autori di tradurre il presente, specchiandosi o semplicemente prendendo spunto dalle dodici variazioni del nero che avevamo lanciato per stimolare il bando di concorso.
Lo sguardo critico e dissidente degli autori su Milano mostra una forte necessità di raccontare e riflettere su questa città, che non è e non deve essere quella delle due o tre potentissime caste, o meglio gang, che la dominano, oppure del cosiddetto terziario che ora è diventato primario, inteso come rendita, speculazione edilizia, assalto alla diligenza degli appalti pub- blici con incompetenti amministratori municipali che blaterano di un Expo già fallito.
L’ennesima bella sorpresa è arrivata nel momento in cui il rapporto con gli autori si è fatto più stretto e abbiamo chiesto ai vincitori del concorso di mettere in scena le 36 opere per la serata finale. Il fitto scambio di mail per confrontarsi e allestire insieme l’iniziativa ha creato i presupposti per la costituzione di una piccola comunità, che ora si è attivata per la realizzazione della pubblicazione che avete tra le mani.

Un ringraziamento di cuore a tutti quelli che hanno partecipato e creduto in questo progetto, in particolare Anna Vivo, GigiZero del Morbid Studio, Giuliano, Vincenzo Costantino Cinaski, Folco Orselli, Matteo Speroni, Andrea La Banca, Guido Baldoni, Paolo Ciarchi, tutti gli autori (anche e soprattutto quelli non selezionati) e tutti quelli che non nominiamo per non annoiarvi troppo.



PAOLO ROVERSI ALLA VECCHIA MANIERA

 Sono gli ultimi giorni dell’Expo, e Milano galleggia in un inedito silenzio quando in pieno centro viene ritrovato il cadavere di un avvoca...