Racconta una piazza occupata, una mappa parlante, una rivoluzione che ha interrogato chiunque la attraversasse. Un progetto di giustizia sociale e di riconquista dello spazio pubblico, un'idea di città nella città che ha contagiato il mondo intero, da Madrid a New York, da Istanbul a Hong Kong. Dai primi racconti dei giovani egiziani su Twitter nel 2011 ai miei reportage sul campo, Tahrir come laboratorio di comunità, avanguardia digitale e grande storia d'amore. Una linea temporale che si svolge e riavvolge, un libro che si fa e si disfa per dieci anni, mentre la speranza di cambiamento viene soffocata dal nuovo dittatore. La piazza perduta, narrata in questa orazione civile con un coro di voci ei frammenti del memoir, non smette di emanare la sua luce, ricordandoci quel che potrebbe accadere o che un giorno accadrà.
Racconta che ha lottato perché gli esclusi ei perseguitati una piazza abitare lo spazio pubblico e vivere in un tentativo democratico di critico radicale del sistema in cui vivere. Una piazza così visionaria da intravedere già dieci anni fa le necessità del discorso intersezionale. Una piazza egiziana che poi si è moltiplicata attraverso geografie, culture, religioni, sistemi sociali, in un contagio digitale di esperienze fisiche, forse il più rapido e fondamentale passaparola dei nostri tempi. Quando sembrava impossibile, qualcuno l'ha creato, e per questo ha pagato un prezzo altissimo.
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